23 novembre 2010

L'esercito dei nuovi schiavi

Fin da piccola sono cresciuta con la convinzione che dire libero professionista significasse intendere una persona con un lavoro super figo, che fa quello che vuole dalla mattina alla sera e guadagna un sacco di soldi.
In realtà ho scoperto crescendo che non è proprio così.
In Italia si parla spesso di precariato intendendo con questo termine quella moltitudine di giovani legati alla propria azienda da contratti a termine, privi di garanzie sociali, che spesso non vengono rinnovati. Una situazione davvero disagevole che costringe a vivere con l'eterna sensazione di non riuscire a costruire nulla di concreto. Mai però di parla dei giovani professionisti che, loro malgrado, si trovano a combattere con una situazione anche peggiore, se non altro per il fatto che nessuno ne parla... E si sa, in Italia, se non si parla di un problema, quel problema di fatto non esiste e dunque non si fa nulla per risolverlo. 
Io sono un architetto e voglio raccontarvi che cosa succede dopo la laurea in Architettura a quei pochi fortunati che riescono a trovare lavoro. Immagino che il discorso sia simile per avvocati, commercialisti e tutte quelle categorie che in teoria costituiscono la classe dei giovani professionisti in Italia.

Nel caso degli architetti lo svolgimento della pratica professionale non è regolarizzata da leggi. Chiunque abbia la laurea in Architettura può sostenere l'Esame di Stato per l'abilitazione alla professione. Lo svolgimento della pratica professionale non è dunque obbligatoria ma viene tuttavia considerata indispensabile dai professionisti più o meno affermati che, in questo modo, utilizzano il lavoro gratuito o sottopagato di giovani neolaureati, con l'alibi di offrire l'opportunità di imparare la professione.
Ammesso che ciò sia anche sopportabile, (e sottolineo sopportabile, no giusto o accettabile, perché in qualunque paese civile ogni forma di lavoro viene pagata in relazione alle competenze e alla professionalità offerta) questo periodo di pratica per i giovani architetti si protrae a tempo indeterminato, finché la loro dignità si rifiuta di svolgere qualunque attività senza ricevere alcun tipo di compenso. Ricordo ai lettori che fino a 100 anni fa questo tipo di lavoro "forzato" esisteva e veniva denominato schiavitù.
C'è chi riesce nella sua ribellione accettando una serie di compromessi (cambiare città, rinunciare a fare l'architetto per fare altro, farsi assumere da un Ente pubblico o da una Banca) e chi invece accetta la condizione di schiavo (perché va chiamata con le parole giuste) ad oltranza, sperando che prima o poi il proprio datore di lavoro capisca il suo valore acquisito e lo premi economicamente parlando, non fosse altro per la sua devozione e per la sua costanza. Speranza che si rivela vana nel 99% dei casi.

Ma parliamo di chi riesce a redimersi dalla schiavitù, parliamo dei fortunati.
A 30 anni o giù di lì non è facile rendersi autonomi come professionisti e avviare una propria attività. Soprattutto in un Paese allo sfascio che non offre grandi opportunità neanche a chi è sul mercato da decenni.
Dunque la cosa più sensata che un giovane architetto (che si ostina a voler fare l'architetto) può tentare di fare è trovare uno studio professionale, avviato e organizzato, che abbia bisogno di collaboratori per svolgere il proprio lavoro. E per fortuna, soprattutto in certe città, ce ne sono.
Il problema nasce nella regolarizzazione del rapporto libero professionista che riceve la prestazione e libero professionista che la offre. I giovani architetti (sempre quelli fortunati), una volta trovato uno studio che desideri la loro collaborazione, sono costretti ad aprire la Partita Iva per avere un regime fiscale da professionista a tutti gli effetti. La cosa che viene comunemente pattuita è l'emissione di una fattura mensile di una cifra costante, che paghi il lavoro svolto dal nuovo collaboratore; un lavoro che in teoria, e sottolineo solo in teoria, dovrebbe essere libero, svincolato da orari e regolato dal progetto che, di volta in volta, il giovane professionista deve seguire, in gruppo o da solo, sotto la super visione dell'architetto titolare dell'attività che alla fine  firma pratiche e progetti (ossia incassa gli utili).
Detta così potrebbe anche sembrare una situazione ragionevole, ma qualcuno di voi ha mai avuto a che fare con uno studio professionale? Non ci sono orari, né fine settimana che tengano. Si lavora dalle 9 alle 21 (e oltre se necessario) per stare dietro a tempistiche impossibili (che obbligano a fare straordinari ovviamente non pagati) per la consegna di un progetto. La flessibilità tanto sponsorizzata per questo tipo di lavoro significa sapere quando si entra in ufficio e non sapere quando si esce (e comunque mai prima delle sette di sera). Significa essere in balia delle decisioni di uno o più professionisti che non hanno la capacità e forse la voglia di strutturare il proprio studio in maniera che funzioni più o meno come un'azienda, consentendo ai propri collaboratori una vita più regolare e meno stressante.
Spessissimo sono rientrata dallo studio di turno con cui ho collaborato da quando mi sono laureata a notte fonda. Più volte ho saltato pranzo o cena per terminare il mio lavoro, spessissimo ho lavorato il sabato e la domenica per tutto il giorno.
E tutto ciò è all inclusive nella cifra pattuita. Niente straordinari, niente premi, niente aumenti. Niente, neanche la sempre gradita pacca sulla spalla seguita da un ben accetto grazie mille, davvero.
La situazione si complica se parliamo della cifra che normalmente viene proposta a chi lavora in queste condizioni di neo-schiavitù legalizzata. Parliamo di compensi mensili che partono da 800€-1000€ e raggiungono al massimo 1800-2000€. Sono cifre da considerarsi al lordo d'Iva, perché siamo professionisti a tutti gli effetti, il che significa meno il 20%, da cui vanno ulteriormente sottratti i contributi da versare alla Cassa degli Architetti, la quota che spetta all'Ordine di appartenenza, le tasse annuali e il costo di un consulente fiscale che, per questo tipo di regime fiscale, è necessario.
Ma, questione economica a parte, la verità è che i giovani professionisti sono dipendenti a tutti gli effetti perché trascorrono almeno 10 ore al giorno in uno studio professionale, alle dipendenze di uno o più capi, non godendo tuttavia di alcuna garanzia sociale tipica del lavoro dipendente (e neanche di quelle irrisorie dei precari).
Niente ferie pagate, nessuna tutela se ti ammali, niente straordinari pagati. Nessun vincolo contrattuale, nessun accordo formale o informale che sia messo nero su bianco. Una giungla selvaggia dove se sei forte e determinato riesci a malapena a sopravvivere. Se c'è crisi o il lavoro scarseggia ti lasciano a casa da un giorno all'altro e non c'è niente che glielo possa impedire. Trattamento di fine rapporto neanche a parlarne. Niente maternità o alcun tipo di assistenza ad una donna in dolce attesa. Questo significa che se malauguratamente o per scelta consapevole aspetti un bebè, il meglio che ti capita è che ti lascino lavorare fino a quando te la senti, per poi salutarti con tanti auguri per la tua nuova vita da mamma. Che tradotto in cifre vuol dire almeno un anno senza stipendio con l'aggravante di dover ricominciare da capo con un figlio a carico, quando si ripresentano le condizioni per riprendere il lavoro.
Certo, noi siamo liberi professionisti, e tutto quello che vi ho descritto potrà sembrarvi la normale gestione della nostra professione. Sarei d'accordo con voi se di libera professione si trattasse davvero. In realtà si tratta di lavoro dipendente, camuffato da collaborazione tra professionisti per evitare di trasformare uno studio professionale in un'azienda strutturata, cosa che aggraverebbe la situazione fiscale imponendo ai datori di lavoro una serie di garanzie per chi è vincolato da contratto, a termine o a tempo indeterminato che sia.

La cosa che più spesso mi sono sentita dire è che dovremmo ribellarci e rifiutarci di accettare queste condizioni lavorative. Ma per fare che cosa? Le centraliniste in un call center? Con tutto il rispetto che nutro per ogni forma di lavoro, io ho studiato per fare l'architetto ed è quello che voglio fare per guadagnarmi da vivere.
La verità è che in un momento in cui la crisi è dilagante, tutti accettano qualunque condizione pur di fare qualcosa. E così tutti gli studi professionali ne approfittano imponendo condizioni assurde, certi che verranno accettate addirittura con entusiasmo, perché sempre di lavoro, seppur precario non legalizzato, si tratta.
Sarebbe necessario un intervento per regolarizzare questo tipo di collaborazione tra professionisti, imponendo a chi offre lavoro il rispetto dei diritti basilari dei giovani professionisti.
Eppure il problema sembra inesistente. Nessuno ne parla, nessuno denuncia. Basterebbe che le Istituzioni semplicemente fotografassero questo universo precario all'interno della disperazione globale, basterebbe fare due conti per capire che uno studio che fattura decine di migliaia di euro al mese non può avere dei collaboratori esterni vincolati da regimi flessibili perché  per produrre quei fatturati sono necessari decine di architetti che 12 ore al giorno lavorano insieme senza mai fermarsi, basterebbe chiedersi come mai un giovane architetto con Partita Iva incasserebbe le solite 12 fatture all'anno di cifra fissa sempre dalla stessa persona o società per svariati anni. Basterebbe semplicemente osservare con attenzione.
Ma siamo poi così sicuri che nessuno si sia accorto di questa deplorevole situazione?
Io credo che in Italia le cose si sappiano eccome. Si sanno, ma si lasciano fare.

Voglio concludere dicendo che il prezzo che si sta pagando per questo lasciar fare è il furto del nostro futuro. Ma che importa, tanto noi siamo giovani. Abbiamo tutto il tempo per farcene un altro.

2 commenti:

  1. che dire... certo, non in tutti gli studi la situazione è cos' tragica... in alcuni se il titolare te lo permette ti concedono anche le ferie (pagate è raro), ti pagano (molto poco) le ore di straoridnari, non ti tolgono un tot dal fisso mensile se ti ammali e se sei una donna particolarmente fortunata ti concedono di mantenerti il posto di lavoro quando rientri da una maternità (senza pagarti la maternità, ovviamente)... sembra già tanto quando ti capita una situazione così e ti ritieni fortunato se riesci a trovare un titolare disposto a darti queste gentilissime concessioni!!! (nonostante tutto quello che stai imparando a lavorare con lui... ovvio)
    in realtà anche se ci sono situazioni diverse e non si può generalizzare, il problema alla base di questo lavoro è identico ed è totalmente condivisibile... non ci sono garanzie e tutele stabilite dalla legge per i giovani che vogliono fare gli architetti e collaborano con studi professionali avviati. c'è sfruttamento puro: perchè il lavoro svolto dai collaboratori nello studio spesso/in genere è un ottimo lavoro. e se ci sono degli errori bisogna pensare alla fretta con cui vengono imposte le cose, agli orari, alla mancanza di confronto e di rispetto, alla pressione psicologica e al ricatto professionale che viene quotidianamente applicato dal capo verso i suoi collaboratori schiavizzati. anzi, a volte il lavoro dei giovani è meglio di quello che sarebbe in grado di fare il loro vecchio capo che spesso si mette nei casini da solo, perchè deve dimostrare che è un figo e che lui le cose le sa fare, ma in realtà è tutta fuffas. prima di tutto manca il rispetto e la gratificazione professionale e umana: vabbè, uno dice, almeno mi pagano... ma quanto? pochissimo, per quello che si fa. qualcuno potrebbe dire... allora mettiti in proprio e comincia a fare i tuoi lavori (questo è l'unico aspetto positivo di avere una partita iva, così puoi arrotondare ogni tanto). solo che mettersi in proprio in italia dove tutti i lavori dei comuni e degli enti pubblici vanno agli amici immanicati e anche nel privato le cose non vanno molto diversamente... la committenza spesso non valuta correttamente la professionalità e la compentenza dell'architetto a cui si rivolge. si guardano solo le apparenze, l'immagine, il nome... daniela, io ti appoggio, dovremmo cominciare a mandare questa tua lettera in giro a qualche trasmissione telesiva o a qualche giornalista illuminato. un bacio, silvia

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  2. Cominciamo col condividerlo su Facebook e con i nostri contatti.... Se trovo il modo di farlo girare, lo farò con molto molto piacere!

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